Adolescence…una storia vera.
Dire il non tutto non vuol dire che il tutto non si può dire.
Tanto è stato detto e scritto su Adolescence, e questo mi ha tenuta nel dire ancora, nell’innaffiare ancora di parole lo sguardo su questa mini serie di Netflix, sul mondo dell’adolescenza, delle adolescenze al plurale singolare, come uno dei possibili modi di incarnare questo tempo.
Eppure, forse, qualcosa ancora si può dire…si può dire del [non/detto]. Parto da questo significante [non/detto] perché il film Adolescence ha qualcosa che lascia senza risposte, senza chiusure, casomai apre a delle domande, a degli interrogativi, a tratti inquietanti. C’è un eccesso che governa questa famiglia; l’eccesso del [non/detto], da cui Jamie l’attore protagonista, si lascia intrappolare.
Non dire diventa un troppo incandescente, ingovernabile, che disaliena e confonde. Questa miniserie lascia una traccia dal lato dello sguardo: uno sguardo genitoriale che non particolarizza, uno sguardo che non coglie, che non ne vuole sapere del disagio del figlio adolescente gettato nelle fauci egoiche e cannibaliche di un Super Io familiare che non ammette incrinature, fallimenti, domande.
Jamie, viene fabbricato e si fabbrica come oggetto sacrificale di questa famiglia granitica, che pur di tenere salda la sua apparente norma/lità si volta dall’altra parte. Jamie, non parla, non dice, tace, nasconde il suo delitto, non vuole deludere o tradire la graniticità familiare. Agisce così il suo malessere in modo violento; nessuno gli ha testimoniato la possibilità di poter inciampare, di poter dare parola all’indicibile. Jamie mente per non disturbare un mondo familiare dove tutto deve andare bene; mente per sentirsi ancora parte di un ideale. Forse il suo passaggio all’atto, il suo delitto, può dire di un tentativo estremo di sottrarsi a questa condizione di ostaggio, di oggetto sacrificato al “sommo bene familiare”.
Nel discorso di Jamie non compare mai la madre…figura sullo sfondo, in superficie, con poca presa anche nel film. Jamie si rivolge solo al padre. Lo sceglie come tutore legale, come custode del suo indicibile, del suo delitto. La madre lascia che Jamie scelga il padre, senza farsi alcuna domanda, senza alcun vacillamento; la madre si fa fuori dalla scena, non vuole guardare quel filmato che imbratta l’immagine del figlio ideale.
Può l’odio mortale di Jamie per la ragazza che lo ha umiliato avere a che fare con l’esclusione dal desiderio della madre? Con l’esclusione da uno sguardo materno che non ha colto e accolto la sua particolarità? Jamie si fa oggetto di bullismo da parte di una ragazza che lo guarda solo per schernirlo, per sacrificarlo al suo godimento. Jamie viene eclissato come soggetto per come accade nello lo sguardo della madre . Può il suo passaggio all’atto essere un tentativo drammatico di liberarsi dalla presa mortifera di questo sguardo in/consistente? Nel sembiante Jamie è come la madre, tranquillo educato, un ragazzino senza alcuna incrinatura; prigioniero del fantasma materno che lo vuole così.
Anche il padre si volta dall’altra parte quando Jamie sbaglia il tiro alla partita di calcio, anche il padre non accoglie i suoi inciampi, lo lascia cadere, ma Jamie lo sceglie come suo interlocutore, si rivolge a lui. Quando alla fine del film, Jamie decide di cambiare versione, di confessare, di dirsi finalmente colpevole, macchiato, quando alla fine del film sceglie di rompere questa graniticità familiare, si rivolge al padre.
Perché lo sceglie?
Il padre è anche l’unico a rompere, con i suoi agiti di rabbia, lo status di apparente norma/lità familiare. Il padre sembra incarnare per Jamie, con la sua collera, una possibilità d’uscita pur se distruttiva; il padre mostra a Jamie che c’è un’altra strada… che si può uscire fuori dagli argini.
Così prova a fare Jamie con la psicologa quando le urla:
«Tu non puoi controllare la mia vita» o «Non ti piaccio nemmeno un pò?, cosa pensi di me allora?» A chi si sta rivolgendo Jamie? Chi sta interpellando? Forse è un appello disperato alla madre? “Guardami per quello che sono, non sono come tu mi vuoi, non sono perfetto, mi puoi amare anche così?”
Jamie sceglie paradossalmente di sacrificare la sua esistenza per darsi un’esistenza al di là della sua condizione di ostaggio. Una scelta che per quanto devastante sia, sembra spostare sintomaticamente Jamie dalla sua condizione di oggetto, dalla sua passivizzazione esistenziale.
Il finale della serie chiama in causa i genitori. Un finale a tratti melioso, ma ugualmente drammatico. Il senso di colpa, irrompe e frattura la graniticità familiare a figlio sacrificato; un finale che in ogni caso lascia aperto un interrogativo, chiama in causa l’Altro genitoriale: «Avremmo dovuto accorgercene e fermarlo» dice la madre al padre di Jamie.
Claudia Guacci.
Psicologa - Psicoterapeuta


